Reversibilità Inps, arrivano nuove restrizioni

Il provvedimento del Governo punta ad agganciarla al reddito familiare Isee, trasformandola da prestazione previdenziale ad assistenziale

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I criteri per l’assegnazione della pensione di reversibilità Inps potrebbero cambiare e chi con le regole di oggi ne aveva diritto potrebbe adesso perderlo o vedersi fortemente ridimensionato l’importo dell’assegno che riceve. La novità è contenuta in un disegno di legge presentato dal Governo che punta a riordinare le prestazioni di natura assistenziale e previdenziale come strumento unico di contrasto alla povertà con misure legate al reddito e al patrimonio.

In particolare il provvedimento in discussione prevede la possibilità di rivedere le pensioni di reversibilità agganciandole all’Isee, per il quale conta il reddito familiare e non solamente quello individuale, considerando pertanto la pensione di reversibilità non più una prestazione previdenziale ma assistenziale. Dunque a giustificare l’erogazione delle pensioni di reversibilità non saranno più i contributi versati durante tutta la vita lavorativa da parte del lavoratore che avrebbe avuto diritto all’assegno se non fosse morto prematuramente, ma lo stato di bisogno dei familiari.

Di conseguenza, il numero di coloro che hanno accesso alla reversibilità inevitabilmente sarà ridotto o riguarderà titolari di reddito marcatamente modesto, sottraendo di fatto i tanti contributi versati per anni dal lavoratore anche a questo fine e reputando la previdenza una fonte per risanare i debiti dello Stato. L’istituto della reversibilità che alla morte del dipendente, assicurato o già pensionato, viene riconosciuto ai componenti del suo nucleo familiare è già tuttavia soggetto a rilevanti limitazioni.

Tale trattamento, per gli iscritti alla previdenza pubblica (Inps – Inpdap) è previsto per il coniuge sopravvissuto ed è pari al 60 per cento della pensione goduta in vita dal titolare, all’80 per cento se c’è anche un figlio e al 100 per cento se ce ne sono due o più, con importi diversi per eventuali altri familiari aventi diritto. Una realtà particolarmente restrittiva è rappresentata dalla prevista condizione che l’importo della pensione ai superstiti venga correlata alla situazione economica del superstite.

La riforma Dini del 1995 ha infatti introdotto dei limiti alla cumulabilità di tali trattamenti con eventuali redditi del coniuge superstite. La pensione viene così ridotta del 25 per cento se si ha un reddito superiore a tre volte il minimo Inps (6.524,57euro per il 2016), del 40 per cento se si ha un reddito che supera quattro volte il minimo e del 50 per cento se superiore a cinque volte. La condizione di ridotta cumulabilità rappresenta una grave discriminazione specie per il mondo professionale (in particolare medico) dove spesso il coniuge è anche esso un lavoratore e percepisce un reddito.

La riduzione interviene, ed è un’ulteriore discriminazione, anche nel caso in cui il reddito sia rappresentato da un trattamento pensionistico nascente, peraltro, da contribuzione obbligatoria. Si tratterebbe quindi dell’ennesimo intervento restrittivo dopo quelli, già particolarmente pesanti, prodotti dalla riforma Monti – Fornero. Da par suo il Governo ha cercato di arginare il diluvio di critiche affermando che, se ci saranno interventi di razionalizzazione, questi riguarderanno solo le prestazioni future e non quelle in essere e saranno adottati solo per evitare sprechi e duplicazioni e non per far cassa in una guerra tra poveri. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la pensione di reversibilità dell’Enpam che viene assegnata al coniuge a prescindere dall’eventuale reddito e dal suo importo.

tabella requisiti per andare in pensione nel 2016

Claudio Testuzza

@FondazioneEnpam