“Il sollievo dalla sofferenza” – Le opere premiate
UN’IDEA FALLITA BENE di Massimo Mattioli
Era il 2016 e non so perché presi quella decisione.
È difficile per uno specializzando in Medicina Interna vivere il quarto anno con i pochi stimoli che avevo io all’epoca. Non ci sono colpe, era un fatto. Sentivo di dover cambiare qualcosa e decisi di iniziare proprio dal mio reparto, non poteva essere altrimenti: ne ero convinto come lo sono tuttora. Quello era il luogo dove stavo subendo una metamorfosi che andava oltre la vocazione o l’etica, dove si entrava a testa alta, grandi sogni, e ci si scontrava con la sensazione di essere l’ultima ruota del carro. Un carro trainato dagli stessi specializzandi nel duplice ruolo di buoi e di sferze, vittime consenzienti della propria retorica da parafulmini designati.
C’è chi lo ammette e chi mente. Insomma, lo spirito col quale galleggiavo a metà del quarto anno era questo, cui si aggiungeva un velo di nostalgia per quel percorso ormai avviato alla fine.
L’idea era la seguente: mettere su una biblioteca, se non proprio una cosa strutturata almeno un angolo dove chiunque potesse sfogliare Pirandello, Wilbur Smith, o magari Hemingway. Sì, perché questi erano i titoli che si stavano impolverando sugli scaffali della mia vecchia stanza. E furono questi, un pomeriggio, che portai furtivamente nel reparto di Clinica Medica, nascosti in quattro sporte belle robuste.
Avevo ottenuto le dovute autorizzazioni, le quali si limitavano a un cenno del Professore seguito da un “Ma, basta che poi nessuno si lamenta,” uscito dallo studio dalla caposala. Nella foga del momento avevo anche preparato una targhetta adesiva da applicare al frontespizio di ogni libro, nella quale si riassumeva il regolamento della biblioteca ed era riportata una citazione. In quelle poche righe splendeva estatico lo spirito allegro dei miei ventotto e disturbati anni; già, perché la frase riportata era l’ultimo straziante grido di Giobbe, lacerato dalle sventure, provocato perfino dalla sua stessa moglie: “Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?”.
È macroscopicamente chiaro che non fu un buon inizio. I libri vennero disposti sulle mensole: erano ottantotto volumi, tutti i romanzi della mia adolescenza.
I primi giorni furono spiazzanti: alcuni elogiavano questo gesto anonimo e altruistico, mentre altri usavano una pila dei miei libri – e lo dico da testimone – come riparo dal sole che penetrava da una scorrevole rotta della finestra.
Ben presto dovetti fare i conti con la realtà. Mi stavo accorgendo che gli scritti scomparivano alla stessa velocità con la quale cambiavano le persone ricoverate e le loro pene. Io monitoravo quel disfacimento sentendomi impotente. Anche i pazienti sono cattivi – pensavo – talvolta persino ladri: non capiscono di essere entrati in un sistema delicatissimo, dove tutto quello che non si vede è la parte più fragile e difficile del percorso di cura, dove c’è sempre chi cerca di rendere quel posto un po’ migliore, un po’ più vicino a qualcosa di gradevole, per non dire – diciamo – familiare.
Ero ancor più frustrato dell’inizio.
Dopo alcune settimane dall’apertura della biblioteca ricoverarono uno dei pazienti più indisponenti che mi sia mai capitato di assistere, curare, o quello che facevo all’epoca. Si chiamava Doppia Erre, considerando le iniziali del cinquantacinquenne in questione.
Non lo conobbi subito, ma la sua fama lo precedeva. Doppia Erre era considerato al pari di un qualsiasi Cerbero o Minotauro. Emblematica fu la seguente scena: io entro nella stanza con in mano lo sfigmomanometro e il fonendoscopio, Doppia Erre mi guarda con la coda dell’occhio, sbuffa, si gira dall’altra parte; poi io dico qualcosa di formale del tipo “…permette?”, e lui mi guarda con la stessa voglia di sangue di Jack Nicolson in Shining, rispondendo “E tu lì, cosa mi vorresti fare ora? È una settimana che non ci capite un cazzo… ancora non vi basta?” (riporto la traduzione dall’anconetano in cui venne pronunciata). E comunque, per dovizia di cronaca, aveva ragione lui: non avevamo ancora compreso cosa causasse la febbre alta e lo strano sfogo che aveva al polpaccio.
Quel prologo si rivelò di fatto un vantaggio, decisi che più in basso di così non potevo andare, non avevo che da guadagnarci: mi imposi di passarci del tempo, mi volevo male.
Invece Doppia Erre si mostrò come una persona acuta, intelligente, ironica, molto sola e probabilmente altrettanto sfortunata, anch’egli con una diagnosi psichiatrica (intendo oltre alla sindrome depressiva che mi ero autodiagnosticato). Sinceramente penso sia stato più facile etichettarlo come affetto da disturbo paranoide, piuttosto che considerarlo solo che uno che si discosta dalla media e fa di tutto per sembrare antipatico.
Non ho una memoria che si possa definire fotografica, non ricordo i volti dei pazienti incontrati nelle corsie degli ospedali dove ho lavorato, ma il suo sguardo non riuscirò mai a scordarlo – forse anche per la somiglianza con Jack Nicolson: a me piace credere che quegli occhi siano entrati dentro i miei e in parte ci siano rimasti, o magari che molte delle persone riescano a leggere nei miei il riflesso benevolo delle persone che per me hanno avuto un senso.
Quegli occhi hanno tutta la vita del mondo. Rimarranno sempre da qualche parte nascosta, lo faranno nonostante la sofferenza che Doppia Erre patì, e la diagnosi mortale che dopo due mesi venne fuori. Io, quando ripenso a lui, vedo ancora uno con le sopracciglia folte e il sorriso giallo di fumo.
Ma forse è una mia suggestione, proprio perché fu Doppia Erre a sbrogliare il mio problema con la biblioteca, a farmi cambiare prospettiva. In una delle ultime chiacchierate venne fuori che aveva apprezzato l’idea dei libri: gli rivelai che l’avevo messa in piedi io tutta la baracca, ma che ne ero anche molto deluso perché stavano diminuendo di giorno in giorno. E lui, come se stesse parlando con un bimbo piagnucoloso, fece: “Embè, ma sei scemo? Lo vedi, funziona… La gente li usa, no?!”.
Ed era vero, non potevo replicare. Non si può controllare il punto esatto dove inizierà a bruciare un legno se lo metti nella brace. E così avvenne: la biblioteca si autoalimentava. Le persone iniziarono a lasciare alcuni dei loro libri; ricordo una affezionatissima che ne portò uno scatolone che liberammo insieme.
Un anno dopo, al termine della specializzazione, mentre raccontavo con gli occhi lucidi questa storia durante la discussione della tesi di specialità, nella biblioteca c’erano ben ottantanove libri, di cui solo ventisei degli originali: un libro in più, ecco quel che siamo.
LA MEDICHESSA di Maria Cristina Latella
E’ na’ giornata come tante..so le sette e fori trona..
Ma la sveglia purtroppo ancora sona…
Me fermu un attimo…ccusci’ a pensa’ co la mente…
So confusa..ma chi so’ io veramente?
So’ madre, so’ fija,so sposa o solu medichessa??
Inzomma…pappiemente parlannu..come sto messa?
Non facciu in tempo a rumà sti penzieri…che m’artelefona lu paziente de ieri,
vole fa de novu la tic e tac,l’elettiocardiogramma e tutti gli analisi
perché l’amico mio,dottorè,pe nun fa gnente mo sta sotto dialisi!!
Non facciu tantu quantu ad attaccà lu telefonino
Che m’arisquilla de novu…ma stavorta è Nino…
C’ha patretu co la febbre tarmente arda che nun ce coje…
“Dottorè…mo sta a strillà pure mi moje!
C’ha un dolore imprruvvisu a lu gargarozzo…
Venga subbito che a sentilli ccuscì piu non pozzo!!”
E mentre sto a pasimà pe stu fattu te sentu fiottà mi fijo come un mattu!
Vole magnà subbito quellu poru cillittu
e strilla ccuscì tantu che me strascino là lu littu..
Ma mentre sto a sbarbujà co lu bardascittu
Te vedu mi marito sulla porta zittu zittu…
A quer punto arpenzu a quillu che javivu dittu…
Che non me saria leata da lu littu
Senza avello coccolato e tenutu strittu strittu….
…e nel mentre facciu stu penziero ardito
Te sento sonà lu campanellu che pare incullatu ar dito!
Dalla sonata già intenno che de mi madre se tratta
Ccusci’ me rendo contu che la giornata è prestu fatta!
E d’impruvvisu è come se lu munnu pe n’attimo me se uprisse
E quanno me richiedo…se semo moji,fije,spose o solo medichesse..
me renno cuntu orimai in che razza de sprufunnu semo messe…
MS Contin di Sandro Salerno
Qualcuno ha spiccato un mandato di cattura per un uomo di quarant’anni. Da acciuffare vivo o morto.
Ci stiamo facendo in quattro per proteggerlo nella sua clandestinità. Il bandolo della matassa lo regge sua moglie.
Non riusciamo a capire il motivo di questa sentenza, poiché il tipo si è sempre fatto i cazzi suoi, ha rispettato i comandamenti, ha lavorato aggiustando il sorriso dei ragazzini che sono usciti dal suo studio con l’apparecchio metallico per certi periodi, ha accompagnato i figli alla scuola calcio e a quella di danza. Al dunque, un brav’uomo.
Stiamo agli sgoccioli, però. Quando le armi si inceppano e le munizioni stanno per finire, stiamo per sparare gli ultimi colpi.
-MS – dico allungando il foglietto sotto il grugno gocciolante di sua moglie.
Lei lo guarda e lo respinge nella mia metà della scrivania.
-Non ha mai fumato. Mica vorrà iniziare adesso?
Mi ruba un sorriso strano che mi fa sentire un po’ paraculo.
-Morfina Solfato. MS Contin. Una la sera e una la mattina.
Riprende a piangere asciugandosi con il bordo svasato della manica del maglione grigio che le aderisce al petto mostrandone la femminilità fuori dal comune. Col respiro profondo che segue, lo scollo della maglia si sposta in alto e lateralmente disvelando ancora più centimetri di seno.
-Questa sarebbe la soluzione ideale, secondo te? – mi chiede.
Annuisco.
-Me l’hanno condannato senza aver commesso nessun reato.
-Come sta? – chiedo sapendo la risposta.
-Male. Tanto. Non riesce a chiudere occhio tutta la notte. Scalcia nel letto, mugugna, poi si leva dal materasso e scende nel salotto. Lo trovo con la testa tra le mani mentre ondeggia avanti e indietro. Ogni tanto grida per il dolore.
-Va già meglio, allora. L’altro giorno ti stava demolendo casa, no?
Adesso non piange più. Spalanca gli occhi e mi ripete le parole che ha usato tempo prima al telefono.
-Una furia! Calci al frigorifero, schiaffi al muro. Ha tirato pure una pedata al cane, poverino. Quello che gli sta sempre in braccio. Se l’è fatto nemico, adesso.
Mi fa ridere.
-Mi si sta consumando come i grappoli d’uva attaccati dalle vespe l’estate nella vigna. Smunto, dimagrito, la faccia è diventata quasi gialla, non mangia quasi niente. A volte piange, altre volte fa il matto.
-Ha ragione. Tu al posto suo come ti comporteresti? – le faccio per spostare l’attenzione dal marito a lei.
Mi fissa dritto negli occhi e poggiando i palmi delle mani sul tavolo deflagra.
-Io mi sarei buttata dal terrazzo della veranda già quattro anni fa, quando l’abbiamo saputo. Franco ha davvero un coraggio così – mima con le mani un cerchio figurato che si usa di solito per descrivere i coglioni.
L’ultima volta che l’ho visto era accompagnato dalla moglie per i dolori, sfuggito di soppiatto dalla casa dove si è nascosto in attesa dell’esecuzione, ospite in un braccio della morte senza grate e senza porte di sicurezza. Vomitava, smadonnava e si piegava all’altezza del fianco per il male atroce che sopportava. Mentre la morfina gli si arrampicava su per la vena del braccio gli occhi serrati si schiudevano a mano a mano e compariva una specie di sorriso.
-Mi dispiace che dopo tutto il lavoro che ho fatto su codesta ragazzina io debba morire e qualcuno si delizi con tutta questa roba – aveva detto indicando con lo sguardo le natiche di sua moglie.
-Sai quanti giretti ci devi fare lì dentro ancora – gli avevo mentito.
-Non gliela fo più. Largo al prossimo. È ancora giovane.
-Oh grullo! – la moglie si era inalberata.
Il dolore gli era passato ed era andato via finalmente in posizione eretta. Senza soffrire.
Mi aveva guardato andando via con un luccichio negli occhi come faceva mamma quando mi chiedeva: “Non mi fate morire”. Pure mamma sapeva. Pure lei soffriva per il dolore alle ossa. Pure lei non dormiva la notte per lamentarsi e nominare Santi su Santi che non la stavano proteggendo da quella Cosa brutta e cattiva che stava lievitando dentro di lei dopo essere partita da una mammella.
-Non voglio che soffra – mi sta dicendo lei ora.
-A che punto sta con la malattia? – domando sapendo più o meno la gravità della cosa.
-È tutto pieno. Fegato, polmoni, reni, addome. Ha un bozzo sul collo grande come una noce. Lui lo spinge in giù cercando di appiattirlo, farlo sparire sotto la pelle. Certe volte mi chiede di provarci anche io. Tutti e due massaggiamo quel fungo per non ritrovarcelo davanti agli occhi. Almeno forse ci scordiamo che c’è.
Hai voglia a premere, penso io. Nemmeno un quintale di tritolo basterebbe a comprimere quel fantasma che appare sul collo, proveniente da chissà quale parte del corpo.
Metastasi. Un concetto pari alla morte. Gli ufficiali giudiziari che hanno recapitato la condanna si chiamano così. Una stasi a metà. Ma non si è affatto a metà della pena. Si è quasi alla conclusione. Un altro passettino e, puf, svanito dal sole di questa Terra che non perdona nessuno di quelli che ci abitano.
-Riuscirà a dormire con la morfina? Ne ha bisogno, e anche io. Quasi quasi me ne prendo una pure io, che dici?
Scrollo le spalle.
-Se ti va.
Si alza dalla poltrona per andare via ma si ferma e con il busto semiruotato mi chiede:
-E se diventa un drogato?
Incomincio a ridere. Provo un po’ vergogna perché non è il caso di scherzarci su.
-Magari! Non sarebbe meglio un marito drogato, piuttosto che?
-Che?
-Che. Punto.
Si riasciuga di nuovo l’occhio che lacrima appena appena.
Tira su col naso e si fa forza per chiedere quello che non vuole sapere.
-Secondo te, quanto dura ancora?
-Un paio di mesi al più – mento cercando di convincermi pure io per quello che ho appena detto.
-Soltanto? – e riprende a piangere.
-Tu dagli la Morfina mattina e sera. Poi si vedrà.
-Già. Si vedrà.
Va via salutando con la mano senza guardare indietro.
Considero che fra non molto resterà da sola con tante recriminazioni, possibilità mancate, rimorsi e sensi di colpa per uno sgarbo fatto o una parola non detta.
Poi scorderà quasi tutto.
Il dispiacere non è fatto per durare a lungo negli uomini. Si estingue naturalmente per spirito di conservazione altrimenti ucciderebbe più della malattia.
Di certo stiamo per perdere la lotta che abbiamo iniziato tempo fa. Come tutte quante.
Non ricordo più le volte che ho visto gente svanire dietro l’angolo del corridoio con il foglietto della morfina in tasca. Troppe volte, per riuscire a provare qualcosa che si avvicini alla commozione.
Li ho rivisti di solito dopo tanto tempo, con i tratti del volto più distesi e privi di lacrime, con la disperazione che ha ceduto il posto a sedere alla malinconia.
E spesso con qualcuno interessato di nuovo a quelle natiche.
MS Contin – La fine
La manovra di accerchiamento è completata. Mai visto un dispiegamento simile per una sola persona, inerme.
Obici, mortai, razzi, mitragliatori, tutti puntati e pronti a sbudellare il nostro amico braccato.
Un mortaio è posizionato sul collo, grosso come un’arancia da mezzo chilo come nemmeno in Sicilia se ne vedono. È un linfonodo, che da piccola nocciolina che appariva, ha divorato vita per diventare enorme e spaventoso. Comprime la trachea, adagiandosi sul pomo di Adamo pronto a colpire.
Altre munizioni sono sparse nei polmoni, sopra, sotto, a destra e manca. Allo stato attuale fanno respirare a fatica ma il momento per l’azione finale è imminente.
Altri hanno sotterrato bombe nell’addome, lungo gli ureteri, nella colonna vertebrale, causando dolori atroci e interminabili che ormai nemmeno la morfina che avevo prescritto tempo fa riesce a mitigare.
Lui respira piano, col volto disteso, libero momentaneamente dal terrore che ha vissuto in tutti questi anni di merda nell’attesa dell’esecuzione.
-Avresti dovuto vederlo! Sembrava spiritato.
Flavia ha le orbite cerchiate di nero mentre i suoi occhi hanno guadagnato lo spazio più indietro, forse per allontanare il brutto dalla sua vista. Non sporgono più, fanno capolino appena appena.
-Poverino – dico io.
-Ci ha chiamato stamattina, ci ha fatto sedere sul divano davanti a lui. Ci ha detto che il suo momento è arrivato, che è sereno, ha sistemato ogni cosa. Non ci sono scadenze da adempiere. Ci ha voluto baciare uno alla volta. Non ha pianto nemmeno. E poi mi ha detto di fare quella cosa.
Guardo suo marito disteso sul letto con le braccia lungo ai fianchi. Le vene bel braccio sembrano appoggiate sull’osso, dimagrito com’è. Negli ultimi due mesi lo sforzo dei nemici è stato incessante. Sono stati veramente bravi, niente da dire. Lo hanno scarnificato facendogli perdere tutti i muscoli che aveva.
La flebo attaccata a un chiodino che serviva per reggere una foto in cornice picchietta come la clessidra appena rovesciata. Meno uno, meno due, meno tre…
Il midazolam fatto in vena ha fatto effetto: non una smorfia, un segno di deglutizione, uno scatto di palpebra. È sedato efficacemente.
-Che devo fare? Io non gliela fo. Non me la sento.
-Che ti ha detto?
Flavia mi ripete quello che già mi ha raccontato altre volte.
-Mi ha pregato di farlo morire con dignità e di non farlo soffrire. Mi ha detto che se lo amo lo devo fare. E io non posso continuare a vederlo soffrire e stare male. Ho lasciato che si svegliasse un po’, riducendo i farmaci, ma appena si è ridestato mi ha urlato che non dovevo farlo, che lui stava finalmente bene. Mi ha morso il braccio con una violenza che non so dove abbia trovato la forza.
Mi mostra i segni dell’assalto sulla pelle dell’avambraccio. Proprio bei denti sani, lo devo ammettere. Non so a cosa servano ormai, se lui non mangia più da giorni e giorni, per lo stato cachettico in cui si trova.
Siamo arrivati in soccorso portando farmaci nuovi, potenti, risolutivi. Però abbiamo solo incrementato il midazolam per farlo dormire.
Sul muro sopra la testa del marito appaiono delle foto in cornicette piccole, posizionate di sbieco e asimmetriche. Si vede lui al mare con i figli seduti sulle sue gambe che riempiono due secchielli con la sabbia. Un’altra lo mostra in un campo da tennis mentre sferza la pallina con violenza stendendo completamente il braccio nerboruto. La più sfuocata e sbiadita mostra lui in abito da sposo con la moglie ancora ragazzina. Accanto c’è il padre privo della propria moglie, che so essere morta quando era appena ragazzino.
C’è troppa vita, in quelle foto, e stride col suo corpo inanimato sull’ultimo letto ad accoglierlo.
-Ma io non glielo lascio acciuffare vivo!
Mentre lo dice Flavia quasi fa riaffiorare gli occhi nella posizione sporgente che aveva qualche mese fa. Mi vengono i brividi, poiché penso a quello che significa per tutti noi: partecipare a una eutanasia. Così su due piedi. Senza averlo preventivato prima.
-Mi aiuti? – mi chiede.
Mi muovo cercando sostegno dagli altri presenti nella stanza.
Incontro lo sguardo deciso e virile del figlio con le braccia incrociate sul petto. Non sopporta vedere suo padre in quello stato, perdere chili e chili di vita senza nessuna speranza e nessuno sconto di sofferenza. I suoi occhi mi consigliano di aiutare tutti loro ma soprattutto suo padre, che ha deciso da tempo e si è preparato fin dalla mattina nel suo ultimo lunghissimo viaggio da vivo.
Un’infermiera pende dalle mie labbra, sperando che io dica di no, così da evitare anche a lei i rimorsi che verranno più in là conseguenti alle nostre azioni di questo momento.
-E dai! – rispondo.
Prendiamo tutti coraggio, facendolo affiorare dal posto dove è andato ad accucciarsi.
Preparo una siringa con un potente oppioide, il Remifentanil. Per l’anestesia si prepara molto diluito e si somministra in pompa in un tempo lunghissimo, a volte molte ore. Adesso lo preparo in una siringa da venti millilitri, per somministrarlo in bolo, tutto in un colpo. La Morfina sta al Remifentanil come la fionda alla bomba atomica. Kilotoni di droga in viaggio per il sangue.
-Come funziona? – chiede.
-Fatto in bolo, rallenta il respiro fino a fermarlo nel volgere di qualche minuto.
-E dopo che succede?
-Dopo qualche minuto che non si respira più, rallenta la frequenza cardiaca fino a fermarsi del tutto – rispondo con la sicurezza che non ho.
La sento perplessa. Ha già rifiutato l’idea di somministrare un curaro per paralizzarlo e non farlo respirare bloccando i muscoli, compresi quelli del torace. È il sistema che hanno usato gli indiani per intingere le frecce di sostanze che paralizzassero gli animali colpiti dalle loro saette immobilizzatrici.
-Si accorgerà di nulla?
-Per niente. Dormirà come sta facendo, passando dal sogno al… – non mi viene un termine appropriato per indicare lo stato successivo al sonno del marito.
Lei soffia il naso asciutto. Forse spera di piangere per continuare a tormentarsi e oscillare nel dubbio ancora un altro po’. Anni di dilemmi e supposizioni svariate stanno per concludersi in un amen. Ma ha deciso quel che è necessario fare. Lo sa, lo vuole, lo ha promesso al marito.
-Se non si fa?
-Continua a morire un po’ per volta. Sta soffocando lentamente, con la massa che gli comprime il collo e le altre che hanno invaso i polmoni. Probabilmente continuerà a soffocare per altri dieci, venti, trenta giorni – rispondo, pensando alla paura che mi attanaglia da sempre di morire annegato, quando mio cugino mi ha tenuto sott’acqua per un tempo lunghissimo impedendomi di riemergere a prendere fiato. Mi era sembrato di stare per morire. Non l’ho scordato più.
Lei afferra la siringa con l’oppioide e se la rigira tra le mani.
-Le munizioni te le ho procurate, adesso il grilletto lo premi tu – le dico.
Riprendo la mia roba e mi avvicino all’orecchio del marito in sonno. Il respiro è tranquillo e superficiale.
-Buon viaggio – gli sussurro accarezzandogli la testa.
Ci salutiamo senza parole e io e l’infermiera andiamo via.
Nel giardino di casa un cucciolo di dalmata è legato a un alberello. Scodinzola ignaro. Immagino tutte le volte che lui e il suo padrone hanno giocato insieme nell’attesa della condanna.
Saliamo in auto io e l’infermiera. Avvio il motore e spariamo alla vista di quella tragedia. Non riusciamo a dirci niente, guardando fissi davanti a noi le strade deserte di un fine settimana estivo. Siamo pieni di vita, noi due, e non sappiamo cosa farne. A un semaforo ci prendiamo la mano e ce la stringiamo senza parlare.
Poi rimango da solo e vago un po’ in giro senza meta.
Mi chiedo se tra le ultime cose che Franco ha scelto prima di socchiudere gli occhi per sempre ci sia stato anche il sesso, se la mattina che ha convocato la famiglia per salutarli non abbia chiesto alla moglie un ultimo piacere. Io lo avrei fatto: avrei portato con me un’ultima emozione, un pompino, una scopata, una voglia da soddisfare per l’eternità. Avrei raccattato quell’ultimo bottino e via. Ciao.
Controllo continuamente il telefonino per scorgere un messaggio o il segno di una chiamata, fino a che non leggo: “Ho iniettato”.
Continuo a guidare con lentezza, ascoltando No surprises dei Radiohead. Ho voglia di essere triste, sprofondare nella mestizia e cullarmi nel suono di un lamento cantato in inglese.
Sul finire della canzone Flavia mi chiama.
-L’ho iniettato tutto.
-Quindi? – le chiedo.
-Ogni tanto dà un respiro lungo, poi va in apnea. Ma il cuore continua a battere. Già da dieci minuti è così. Mica sta soffrendo?
-No – dico io.
-Cosa posso fare?
-Fagli una fiala di Propofol in bolo rapido.
-Che succede?
-Potenzia l’effetto dell’oppioide. Il respiro si fermerà del tutto.
-Grazie – mi dice.
Di che cazzo mi ringrazia, mi chiedo io. Ho studiato per salvare la gente, e non per aiutarla a morire. Ho un senso di vomito che non parte dallo stomaco ma dal naso. Sento gli odori amplificati. Qualcuno deve aver tagliato l’erba nei campi adiacenti alla strada provinciale che sto percorrendo ma non scorgo anima viva.
Quando la nausea sta per passare sento la vibrazione del cellulare che mi indica che è arrivato un messaggino.
-È andato – c’è scritto.
Spengo il cellulare e mi accendo una sigaretta.
Il giorno in cui toccherà a me voglio avere il coraggio e la lucidità di porre fine alla mia sofferenza come ha fatto questo povero ragazzo. Non si è arreso, ha lottato per tanti anni, ed è riuscito a non farsi catturare.
Me lo aveva detto: – Non mi prenderanno vivo.