Pensioni d’oro tagliate, ma non oltre il 2021
Taglio e rivalutazione a passo ridotto delle cosiddette “pensioni d’oro” continueranno, ma non oltre l’anno prossimo. È stata la Corte costituzionale a decretare la legittimità del “raffreddamento della perequazione” per i trattamenti oltre i 100mila euro lordi l’anno, segnando allo stesso tempo lo stop per il contributo di solidarietà quinquennale e limitandolo all’orizzonte triennale proprio del bilancio di previsione statale.
STOP AND GO DELLA CONSULTA
In questi giorni, i giudici costituzionali hanno esaminato le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Milano e dalle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti per il Friuli-Venezia Giulia, il Lazio, la Sardegna e la Toscana, in relazione alle misure di contenimento della spesa previdenziale disposte dalla legge di Bilancio 2019 a carico delle “pensioni d’oro”.
Le questioni avevano come oggetto la limitazione della rivalutazione automatica per il triennio 2019-2021 delle pensioni superiori a determinati importi (il cosiddetto “raffreddamento della perequazione”) e la decurtazione percentuale – per cinque anni – delle pensioni superiori a 100mila euro lordi annui (“contributo di solidarietà”).
In attesa del deposito della sentenza, che dovrà avvenire a breve, l’ufficio stampa della Corte ha fatto sapere che è stato ritenuto legittimo il “raffreddamento della perequazione”, in quanto ragionevole e proporzionato. Ma che, pur essendo stato ritenuto legittimo anche il “contributo di solidarietà”, lo stesso non potrà essere applicato per la durata quinquennale, perché eccessiva rispetto all’orizzonte triennale del bilancio di previsione dello Stato. Pertanto, il contributo rimarrà solamente sino a tutto il 2021.
Per quanto riguarda la prima questione, la perequazione, è bene ricordare che si tratta di quello strumento con cui l’importo della pensione viene rivalutato in base all’andamento dell’inflazione. È un meccanismo con cui gli assegni previdenziali, ma anche assistenziali, vengono adeguati all’aumento del costo della vita, tenendo conto dei dati Istat. L’obiettivo è di mantenere inalterato il potere d’acquisto con il passare degli anni. Il risultato, però, consiste in molti casi in una vera e propria elemosina in quanto la rivalutazione completa si ferma a trattamenti pensionistici assai modesti e si va via via annullando per pensioni superiori a 4 o più volte il minimo pensionistico Inps (circa 500 euro mensili).
LA BATTAGLIA CONTRO GLI ASSEGNI ELEVATI
Era stato, per mesi prima delle elezioni e per settimane anche dopo l’insediamento del governo giallo-verde, uno dei cavalli di battaglia del movimento Cinque Stelle. “Quest’estate non ci sono i Mondiali, ma presto avremo qualcosa da festeggiare: la fine delle pensioni d’oro e l’inizio di un’Italia più giusta”, aveva scritto su Facebook l’allora ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio.
Il risultato è stato, poi, conseguito con la legge di Bilancio per il 2019 (la 145/2018 all’articolo 1, comma 261) con la quale è stato stabilito che a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge e per la durata di cinque anni, i trattamenti pensionistici, i cui importi complessivamente considerati superassero i 100mila euro lordi su base annua, fossero ridotti di un’aliquota pari al 15 per cento per la parte eccedente l’importo in questione fino a 130mila euro. Una riduzione che si attesta al 25 per cento per la parte eccedente 130mila euro fino a 200mila euro, al 30 per cento per la parte eccedente 200mila euro fino a 350mila euro, al 35 per cento per la parte eccedente 350mila euro fino a 500mila euro e, infine, al 40 per cento per la parte eccedente 500mila euro.
PIÙ PESI, UNA SOLA MISURA
Ma sono gli interventi restrittivi sulle cosiddette “pensioni d’oro” ad aver preoccupato maggiormente chi percepisce pensioni più elevate. Anche questi pensionati devono fare i conti con disparità non indifferenti. Basti pensare, ad esempio, che chi percepisce un reddito da pensione di circa 110mila euro l’anno, subirà un taglio di circa 1.500 euro nei dodici mesi. Per chi invece, ad esempio, percepisce un reddito previdenziale di 140mila euro lordi l’anno, la sforbiciata può arrivare anche a 7mila euro e oltre.
Tale contributo di solidarietà avrebbe dovuto garantire risparmi, al netto della fiscalità, di circa 400 milioni di euro cumulativamente in cinque anni. Molto meno di quanto si spende per “Quota 100”.
Nelle intenzioni del precedente governo giallo-verde, la misura sarebbe dovuta durare per cinque anni, mentre secondo i giudici della Suprema corte, come detto, non potrà andare oltre il triennio.
Secondo le prime informazioni, il motivo è che la durata quinquennale di un provvedimento del genere è ritenuta eccessiva rispetto all’orizzonte triennale del bilancio di previsione dello Stato. Tecnicismi a parte, non si tratta di una bocciatura su tutta la linea. Con il deposito della sentenza, previsto nelle prossime settimane, verranno ulteriormente chiarite le motivazioni della decisione dei giudici.
Claudio Testuzza