Opzione Donna, braccio di ferro sui tempi

Il Comitato nato per difendere l’opportunità per le lavoratrici di andare in pensione a 57 anni (rinunciando al 25 per cento dell’assegno) ha avviato una class action contro l’Inps, che aveva fissato allo scorso 31 dicembre la scadenza per maturare i requisiti. Eppure la legge dava tempo fino al termine del 2015

Un momento della manifestazione di fronte al Ministero dell'Economia e delle Finanze dei sindacati Cgil, Cisl, Uil e Ugl, mobilitati ad oltranza per la salvaguardia degli ultimi 50 mila lavoratori sospesi tra il lavoro e la pensione a seguito della riforma Fornero, e l'applicazione della cosiddetta Opzione Donna, Roma, 22 settembre 2015. ANSA/ FABIO CAMPANA

Per esercitare l’Opzione Donna, e andare quindi in pensione a 57 anni e tre mesi con 35 anni di contributi, le lavoratrici italiane dovranno attendere l’ultima parola dal Tar del Lazio. Sarà il Tribunale amministrativo a decidere se la data limite per essere in possesso dei requisiti si sposterà al prossimo 31 dicembre, confermando così l’interpretazione maggiormente condivisa della norma (legge n. 243/2004) che si era scontrata però negli scorsi anni con il parere negativo dell’Inps.

L’istituto previdenziale nel 2012 aveva autonomamente ridotto di un anno la scadenza per accumulare l’anzianità lavorativa, invocando le ‘finestre mobili’ di 12 mesi per i dipendenti del settore pubblico e 18 mesi per quelli del privato al tempo vigenti. Un’interpretazione che da subito era apparsa poco fondata, tanto che l’Inps nello scorso dicembre aveva imposto alle sedi decentrate di non respingere, ma tenere in evidenza, le domande presentate dalle lavoratrici che avessero maturato i requisiti entro il 31 dicembre 2015.

Un tentativo che qualche osservatore aveva interpretato come una presa d’atto del problema, in attesa di un pronunciamento da parte del ministero del Lavoro, e di conseguenza del Governo. Per evitare di perdere mesi preziosi in lungaggini burocratiche, a questo punto il Comitato ‘Opzione Donna’ ha avviato una class action presso il Tribunale amministrativo del Lazio chiedendo la cancellazione delle due circolari Inps del 2012 alla base del conflitto.

Parallelamente l’istituto previdenziale ha ancora una volta sollecitato l’azione governativa, stimando pubblicamente i costi della ‘estensione’ a due miliardi di euro, ma senza rendere noti i metodi di calcolo attraverso cui si è raggiunta la valutazione. La possibilità di un pensionamento anticipato, peraltro con l’ottenimento di un assegno interamente calcolato con il sistema contributivo (che di fatto riduce del 20 – 25 per cento il trattamento previsto con il sistema retributivo), era stata introdotta dalla riforma Maroni del 2004 in forma sperimentale e fino al 31 dicembre 2015.

Eppure, nonostante il danno economico, la prospettiva di uscire prima del previsto dal mercato del lavoro risulta apprezzata da un ampio spicchio della popolazione femminile, un dato confermato dalla rapidità con cui il Comitato ha raccolto oltre 500 adesioni all’iniziativa promossa presso il Tar del Lazio. Mentre nel frattempo in Parlamento la discussione avviata sulla possibilità di estendere anche oltre la fine dell’anno la possibilità di pensionamento anticipato per altre lavoratrici ha subito, dopo la stima dei costi da parte dell’Inps, un improvviso stop.

DIPENDENTI PUBBLICI, LA BEFFA DEL RISCATTO

Per l’Inps il medico dipendente pubblico non potrà ETTORE FERRARIescludere dal calcolo dell’anzianità contributiva gli anni di studio una volta che questi sono stati completamente riscattati. La conseguenza più immediata è che le amministrazioni potranno interrompere il rapporto di lavoro al raggiungimento del quarantesimo anno di contributi, indipendentemente dall’età del sanitario.

La decisione dell’istituto previdenziale è contenuta nel messaggio 2547/2014, e giunge al termine di una lunga disputa iniziata con l’entrata in vigore della legge 133/2008 che permette di licenziare il dipendente pubblico al raggiungimento dei 40 anni di contributi. L’Inpdap, l’istituto pensionistico in cui era confluita la cassa pensioni dei sanitari, era orientata a non considerare nel calcolo gli anni riscattati, a condizione che il periodo non fosse stato già utilizzato per determinare l’assegno e senza possibilità di chiederne la restituzione. Ma l’Inps, subentrato all’Inpdap, ha preso la decisione opposta.

Claudio Testuzza

@FondazioneEnpam