“Non ti salva manco Roccatani”

Si dice che nei bar di Ceccano, fino ancora a qualche anno fa, chi perdeva a carte veniva apostrofato con la frase “non ti salva manco Roccatani”. Ciò che è certo è che la memoria di Ettore Roccatani è arrivata fino ai giorni nostri, tramandata di bocca in bocca dalla Ciociaria all’Etiopia.

Merito della sua abnegazione e professionalità, ma anche di un particolare intervento di chirurgia plastica effettuato durante la guerra d’Africa e reso noto esattamente ottant’anni fa attraverso le pagine dell’allora celebre settimanale la Tribuna illustrata.

Figlio di Adele e Raffaele, medico condotto, Roccatani era nato a Sora il 23 aprile 1905 laureandosi a soli 23 anni con il massimo dei voti. “All’epoca il medico si occupava di ogni tipo di malato, non prestava attenzione alla specializzazione, ma alla necessità del paziente” scrive uno dei figli al Giornale della Previdenza.

Roccatani passava così dal curare un ascesso a operare un’ulcera, fino ad effettuare una plastica ricostruttiva. Come nell’episodio narrato nell’articolo che racconta della sua esperienza come ‘capomanipolo’ durante la guerra d’Africa.

“Il medico o, come è chiamato laggiù, l’achim, rappresenta una vera deità di salvezza” scrive il giornalista, che poi racconta come Roccatani abbia restituito la felicità a un giovane “alto, snello e robusto ma, ahimè colla fisionomia terribilmente deformata da un mento mostruoso”.

Tornato in patria dopo aver contratto la malaria, Roccatani fu alla guida dell’ospedale di Sora, Pontecorvo, Fiuggi e Ceccano, e poi direttore di una clinica privata nella stessa Ceccano dove divenne un mito, le sue mani considerate alla stregua di quelle di un guaritore.

“Arrivavano alla nostra porta malati in pigiama sfuggiti furtivamente (dall’ospedale) per essere curati da nostro padre” ricordano ancora i figli.

Gli ultimi anni di vita li dedicò alla libera professione soprattutto di chirurgo presso cliniche di Roma tra cui Villa Domelia a Montesacro, Santa Sabina all’Aventino, Villa Nina a Frattocchie.

Morì a 57 anni nel 1962 per cancro allo stomaco lasciando cinque figli e la moglie.

Quattro anni più tardi suo figlio più piccolo Enrico, rimasto orfano anche di madre, riuscì ad essere ammesso nel collegio dell’Onaosi di Perugia grazie a una borsa di studio Enpam.

“Nella mia vita – scrive al Giornale della Previdenza – non smetterò mai di ricordare quella mattina del settembre 1971 quando, con mia sorella Anna, che allora era il mio tutore, e in compagnia del suo fidanzato, partii finalmente alla volta di Perugia: ero stato ammesso come convittore all’Onaosi presso il convitto maschile (oggi collegio unico). Trovai ad accogliermi il dottor Degli Esposti, allora vice direttore del maschile che mi condusse dal Direttore, il dottor Castrucci, che io ricordo sempre con grandissima stima. Subito ebbi un’intuizione che qualcosa doveva cambiare in me, e doveva essere importante per il mio futuro…”.

Da allora sono trascorsi quasi cinquant’anni, ma Enrico non ha dimenticato il suo papà.

Marco Fantini