Medici, previdenze a confronto

Nel campo della previdenza il dibattito pubblico e quello politico si concentrano sull’età minima per andare in pensione, nascondendo però il vero interesse del lavoratore.

Sui mezzi di comunicazione il balletto di cifre riguarda gli anni di contribuzione e i parametri anagrafici, eppure il dato fondamentale resta il cosiddetto “tasso di sostituzione”. Si tratta del rapporto tra il primo assegno pensionistico e l’ultimo stipendio percepito, una misura che esprime in percentuale la copertura garantita ai lavoratori in base alla carriera lavorativa.

Il tasso di sostituzione consente, infatti, di comprendere se e in che misura il tenore di vita di cui si gode durante la vita attiva potrà essere mantenuto in vecchiaia, una volta fuori dal mondo del lavoro.

Prima della riforma Dini del 1995, il sistema retributivo garantiva ai medici dipendenti del Servizio sanitario con 40 anni di contribuzione un reddito pensionistico uguale agli ultimi stipendi percepiti.

L’aliquota di rendimento prevista dalla loro Cassa Pensioni Sanitari era, infatti, ben più alta del costante 2 per cento per ogni anno di contribuzione previsto dall’Inps per i dipendenti privati, salendo addirittura negli ultimi anni di servizio anche al 3/4 per cento annuo.

Il sistema garantiva un tasso di sostituzione particolarmente elevato ed era sostenuto, per i medici, da una Cassa particolarmente florida. Una condizione totalmente perduta nel corso del passaggio prima all’Inpdap e poi all’Inps, enti che hanno usato e usano tuttora gli attivi della categoria per pagare le pensioni dei dipendenti di altre casse previdenziali in passivo. Tra queste, a titolo di esempio, spicca l’Inadel, cioè la gestione dedicata ai dipendenti degli enti locali.

L’aliquota di rendimento prevista dalla loro Cassa Pensioni Sanitari era, infatti, ben più alta del costante 2 per cento per ogni anno di contribuzione previsto dall’Inps per i dipendenti privati, salendo addirittura negli ultimi anni di servizio anche al 3/4 per cento annuo.

Il  sistema contributivo introdotto dal 1996 per ridurre la spesa pensionistica pubblica ha ancorato il valore dell’assegno pensionistico a tre fattori: l’entità dei contributi versati, l’andamento del prodotto interno lordo e l’età del ritiro: più si allontana l’uscita, maggiore sarà l’assegno, perché minori sono gli anni di corresponsione delle somme.

Il risultato di queste riforme è che il tasso di sostituzione all’età di vecchiaia (67 anni) si attesta intorno al 70/60 per cento. Ma scenderà ulteriormente mano a mano che i lavoratori passeranno dal sistema retributivo misto al contributivo puro.

Se  questi sono gli importi  dei tassi di sostituzione riferibili ai sanitari che svolgono la loro attività nell’ambito del servizio pubblico, appare utile valutare, per quanto questo possa essere possibile per evidenti criteri di calcolo differenti, quello che succede a  confronto con  i medici iscritti all’Enpam.

Claudio Testuzza

 

IPOTESI DI PENSIONE ORDINARIA

Coefficienti di trasformazione in vigore dall’1/01/2019 – Aliquote rendimento ENPAM in vigore dall’1/01/2013

RENDIMENTO DI 1.000 € DI CONTRIBUZIONE

Il confronto appare, da queste simulazioni, a favore della previdenza della Cassa professionale Enpam che attribuisce i valori pensionistici con i coefficienti validi al momento del versamento dei contributi. Mentre per l’Inps la prospettiva di ulteriori modifiche riduttive dei coefficienti di calcolo, che intervengono  su tutto il montante accumulato integralmente e senza valutazione pro-quota dei periodi di riferimento ma solo del momento del pensionamento, potrà rendere ancora più modesto il tasso di sostituzione futuro