Dall’Africa alla Siria, la telemedicina italiana salva la vita

A volte, un click può cambiare un destino. Succede se a viaggiare online sono esami e referti, provenienti da presidi medici disagiati del Terzo mondo e diretti ai centri di eccellenza del nostro Paese.

È così che l’organizzazione Global Health Telemedicine ha fatto del web uno strumento concreto di salute universale, trasformandolo in un vero e proprio modello sanitario.

Istituita nel 2013 nell’ambito del programma di cooperazione sanitaria “Dream”, lanciato dalla Comunità di Sant’Egidio nell’Africa sub-sahariana, la Onlus coinvolge 150 volontari, specialisti in 18 discipline.

I camici bianchi che ne fanno parte lavorano al San Giovanni, al San Camillo e al Policlinico Gemelli di Roma, alla Fondazione Arpa di Pisa e al Besta di Milano.

Sono loro a rispondere direttamente alle richieste di 200 colleghi sparsi in 33 centri sanitari di 13 Paesi africani.

“Funziona un po’ come quando si chiama il radio taxi” spiega Michelangelo Bartolo (nella foto), angiologo, responsabile dell’Unità di Telemedicina dell’ospedale capitolino San Giovanni Addolorata e segretario generale di Ght.

“Da un centro sanitario remoto un medico o un infermiere compila le notizie cliniche del paziente, aggiunge eventuali esami realizzati in loco e trasmette la richiesta allo specialista specificandone l’urgenza con il classico codice bianco, verde, giallo o rosso e la lingua in cui attende la risposta. I medici che soddisfano le caratteristiche richieste vengono avvisati tramite sms o email di un teleconsulto in attesa. Il primo specialista si collega tramite pc, tablet o smartphone, visiona i dati e gli esami allegati. Infine, invia le indicazioni diagnostiche e terapeutiche”.

Con questo sistema, dal suo decollo ad oggi la Ght ha effettuato più di 6mila teleconsulti. “Oltre il 60 per cento riguarda malattie infettive – puntualizza Bartolo – . La maggior parte interessa pazienti Hiv positivi e molte patologie opportunistiche, per cui si propongono nuove linee terapeutiche. Inoltre, stiamo implementando la refertazione di elettroencefalogrammi e sono allo studio soluzioni per l’invio di vetrini di anatomia patologica”.

Il raggio d’intervento della Ght non di rado travalica i confini africani ed è destinato a superarli.

Quest’anno debutteranno tre nuovi centri in Perù (progetto Apurimac, finanziato dalla cooperazione italiana) e uno in Bangladesh nel campo profughi dei Rohingya.

“Ma non basta – dice Bartolo – . Ci sono oltre 35 richieste di apertura di centri di telemedicina da varie parti del mondo per i quali non abbiamo le risorse, mentre continue richieste di aiuto arrivano da luoghi in cui ancora non siamo presenti. Come il Libano, o la Siria, che dal 2011 è dilaniata dalla guerra civile”.

Proprio dalla Siria arrivano due storie che illustrano in maniera esemplare possibilità e limiti del web come strumento per avvicinare i medici ai pazienti in contesti critici.

“Elisabeth, siriana, 12 anni, era ospite di un campo profughi in Libano – rammenta Bartolo – . La ragazzina era affetta da una rara forma di displasia venosa del braccio e del torace e aveva dolori fortissimi. Dopo molteplici teleconsulti con chirurghi vascolari e angiologi, si è deciso di trasferirla in Italia, attraverso i corridoi umanitari della Comunità di Sant’Egidio, dove è stata curata”.

Per la connazionale Helina, 19 anni, l’esito è stato differente. “Era stata ferita a una gamba da una granata, sottoposta a fasciotomia e ricoverata in un ospedale nella confinante Turchia. Al teleconsulto aveva risposto, tra gli altri, Massimo Danese, chirurgo vascolare del San Giovanni, confermando la correttezza della condotta terapeutica. Poi della ragazza non si è saputo più nulla. A quanto pare il padre è andato a riprendersela contro il parere dei sanitari e l’ha riportata in Siria. Spesso – conclude Bartolo – la logica della guerra è incomprensibile”.

Paola Stefanucci