La Corte dei Conti dà ragione all’Enpam. Sentenza da 40 milioni
Quest’estate è stata pubblicata una sentenza della Corte dei Conti che rende giustizia all’Enpam, al suo Consiglio di amministrazione e agli iscritti. La magistratura contabile ha infatti condannato un esperto finanziario, che in questa veste era anche componente del Cda, e un consulente della Fondazione, a rifondere quasi 40 milioni di euro al nostro ente. La colpa (grave) addebitata ai due è quella di non aver informato in modo adeguato il resto del Consiglio di amministrazione sull’estrema rischiosità di titoli di cui loro stessi avevano proposto l’acquisto.
Per ricostruire la vicenda occorre tornare indietro nel tempo. Prima che scoppiasse la crisi finanziaria del 2008 l’Enpam aveva acquistato importanti quantità di prodotti finanziari struttura-ti, in particolare di tipo Cdo (Collateralized Debt Obligations). All’epoca questo tipo di investimento era quasi di moda, vi accedevano enti locali, regioni, pro-vince, le stesse Banche che li propone-vano al mercato. Passavano come strumenti efficienti di diversificazione e decorrelazione dei rischi. L’allora ministro delle Finanze sosteneva consentissero «una migliore distribuzione e gestione dei rischi». E aggiungeva: «Aiutano a stabilizzare un’economia, proteggono un’impresa dalla volatilità dei cambi. In quanto tali sono di beneficio all’economia».
Purtroppo è stato dimostrato che questi titoli, oltre ad avere «il vantaggio di consentire una gestione più efficiente dei rischi che esistono» hanno creato nuovi gravi rischi speculativi di fallimento. Per certo, a chi doveva votare gli investimenti in Enpam, questi pacchetti finanziari non erano stati presentati come titoli speculativi ad alto rischio, ma obbligazioni a capitale garantito. Con il crollo dei mercati mondiali, invece, il valore stimato di questi titoli calò bruscamente e – se fossero stati venduti in quel momento, cosa fortunatamente non accaduta – l’Enpam avrebbe sofferto perdite per centinaia di milioni di euro.
Fu invece inserito in bilancio un fondo svalutazione titoli mobiliari di 400 milioni di euro, che da alcuni Presidenti di Ordine fu poi erroneamente considerato un “buco” finanziario consolidato, e non un prudente appostamento di una potenziale minusvalenza. Si decise di ristrutturare tali titoli, invece di venderli a prezzi stracciati alle stesse banche che li avevano confezionati oppure di correre l’immane rischio del loro azzeramento nel tenerli fino a scadenza. Nell’estate del 2010 venne eletto un nuovo Consiglio di amministrazione. Chi scrive diventò vicepresidente vi-cario: come primo atto proposi ed ottenni di tenere fuori dal Cda gli esperti non medici e in parallelo impostai una riforma della gestione degli investimenti patrimoniali basata sulle procedure e sulle migliori pratiche internazionali, e non più su singole, seppur illustri, autorità professionali.
Contemporaneamente partirono delle selezioni per assumere in Fondazione persone con le opportune competenze. Oggi la sentenza della Corte dei Conti rende me-rito a questa scelta. I magistrati hanno infatti riconosciuto che proprio l’asimmetria che c’era tra i consiglieri medici e il consigliere esperto di finanza, aveva fatto sì che gli uni facessero “legittimo affidamento” sul parere di quest’ultimo. Tanto più che anche le proposte provenivano da una figura di grande prestigio: un consulente che in precedenza era stato direttore generale dell’Enpam. Tolta l’asimmetria, il Consiglio di amministrazione è tornato pienamente sovrano, anche psicologicamente, e ha potuto completare una riforma degli investimenti che ha dotato la Fondazione di procedure, di con-trolli incrociati, di professionalità scelte sul mercato, e ha portato a ridurre i rischi e a tagliare le commissioni versate a banche e intermediari finanziari (per i nuovi investimenti, solo commissioni da “zero virgola”, fedeli al mantra che il guadagno comincia con lo spendere meno).
Nel 2011 intanto si scatenò il putiferio: un esposto presentato alla magistratura e soprattutto alla stampa, indusse i media a parlare di un fantomatico buco da un miliardo di euro nelle casse dell’Enpam. Si creò un clima avvelenato da fake news, da cause e da contro-cause (il sottoscritto peraltro le ha vinte tutte). La posizione che espressi a nome dell’Enpam sin dall’inizio fu netta: “Il buco non esiste, in quanto ente di previdenza non faremo più questo tipo di investimenti rischiosi, chiederemo un risarcimento alle banche che ce li hanno proposti e se verrà dimostrato che qualcuno ha indebitamente lucrato, gliene chiederemo opportuno conto”. Il processo penale originato dall’esposto che tan-to clamore fece sull’Enpam non portò ad alcuna condanna, anche per effetto di prescrizioni.
Però il procedimento – nel quale come Fondazione ci costituimmo parte civile – ha permesso di cristallizzare determinati fatti che oggi ci hanno fatto ot-tenere dalla Corte dei Conti il diritto a 40 milioni di risarcimento. Tanti penseranno che sono soldi che non vedremo mai. Io posso solo rispondere con i fatti: abbiamo chiesto risarcimenti alle banche e li abbiamo ottenuti (cifre anche ben più alte di quelle indicate in quest’ultima sentenza); quando siamo stati vittime di mala gestio abbiamo fatto causa e non solo sono arrivati i provvedimenti favorevoli dei giudici, ma anche i bonifici. Infine un “com’è andata a finire”: grazie alla ristrutturazione sui Cdo non ci abbiamo rimesso un euro, anzi ci abbiamo guadagnato. Il margine non è stato alto e di sicuro non è stato proporzionale al rischio corso. Di certo il buco non c’è mai stato, il fondo svalutazione si è azzerato in pochi anni e la Giustizia sta facendo il suo corso.
Alberto Oliveti
Presidente della Fondazione Enpam