Al di qua dell’inferno
Caro Presidente,
non credo ci siano parole adeguate che possano spiegare realmente cosa significhi lavorare in terapia intensiva ultimamente con lo scafandro (la tuta da astronauta) e la paura costante di passare dall’altra parte perché sei vulnerabile esattamente come quell’individuo cui stai prestando le tue cure.
Non si può descrivere come ci si senta, in apnea, le labbra umide e la gola secca, con il tuo stesso alito caldo che appanna il casco protettivo sanificato né si può spiegare come si cammini con quell’andatura anserina lenta e ovattata, sentendo i tuoi passi pesanti che devi rendere leggeri affondando nei calzari o il dolore dei tiranti della maschera che graffiano le tue gote come artigli.
Maschera da cambiare ogni quattro ore. Ore?
Quali ore? Che mese è? Che giorno è?
Quel tuffo al cuore improvviso che fingi di non avvertire, quel calore che invade ogni poro della tua pelle o il bruciore del casco sui capelli raccolti, come se indossassi una corona di spine. Quando provi a sederti ti tira la fronte ma devi sperare di non bucare la tuta nel movimento.
Rimanere in canotta grondante di sudore (sperando non ci siano caduti milioni di virus su quella canotta!) e attraversare reparti al freddo notturno dopo la svestizione prima di tornare nel “pulito” perché non c’è posto per lasciare una felpa, dove la metti?
È tutto sporco, tutto sporco di SARSCOV2!
Correre su e giù, sudando davvero sette ma anche otto magliette, perché le camicie non esistono. T-shirt comprate d’estate adesso macchiate dalla candeggina e dal dolore che non si spiega ma ti resta avvinghiato come una scimmia.
Come si possono descrivere le telefonate dei figli dei pazienti che ti riconoscono dalla voce, che ti dicono che il padre quando era sveglio ha chiesto di te e ti chiamano per nome perché in guerra i prefissi non esistono né i gradi né i titoli.
Siamo tutti uguali, tutti con un nemico comune. Ed è giusto così.
E poi qualcuno che lavora in ospedale chiama per chiedere notizie, ti riconosce e tira un sospiro di sollievo: “una voce amica”.
Ma poi tante altre voci, tanti altri nomi non li riconosci, ci pensi dopo, quando sei finalmente… al sicuro.
Non ci sono modi efficaci per definire l’amorevole odioso profumo di cloro che assapori ogni volta che devi svestirti, momento molto delicato, quello in cui potresti contaminarti…! Il richiamo della varichina ultimamente è motivo di gioia infinita, come quando in pieno agosto, con i cornetti alla crema in una mano, lo zaino su una spalla e un telo di spugna nell’altra mano, cerchi di sistemarti meglio gli occhiali da sole sul naso per sentire il profumo del mare che vedi in lontananza oppure quando è autunno e cammini sotto la pioggia respirando a pieni polmoni per sentire quel romantico odore di terra bagnata: ecco l’insopportabile acre esalazione di ipoclorito di sodio è diventata brezza marina, odore di pioggia, odore di buono.
Così come non si può descrivere cosa resti della tua vita là fuori: l’isolamento fisico dai tuoi cari da settimane, che non puoi contattare una volta dentro perché l’accesso al cellulare non ce l’hai (il touch non risponde con 2/3 paia di guanti) e che fremono perché non sanno che fine tu abbia fatto (dovevi uscire alle 20:30 ma sono le 23). Tornare a casa dopo il turno in piena notte con i termosifoni spenti e il frigo vuoto, senza divano e con quel materasso che ancora non sei riuscita a cambiare, in una casa in affitto che è l’unica che tu possa permetterti.
E poi l’angoscia che ti prende quando comincia una tosse leggera che: “non sarà Covid, dai, non può essere, sarà il reflusso, saranno state le corse su e giù, sarà che sono uscita a stendere i panni, il cloro, sarà…” e allora giù vitamine, latte, tisane, altre vitamine.
Quando dietro il bianco made in Cina delle tute riconosci finalmente uno sguardo rassicurante, non importa se è quello di infermieri amici, alcuni conosciuti da anni o quello di qualcuno appena incontrato, quando riconosci quello sguardo, ti senti al sicuro: è come scorgere una scialuppa in un mare in tempesta, ti senti a casa e allora un impulso inatteso ti fa riacquistare fiducia anche in piena notte e ti convince che sì, ce la puoi fare.
Cerco di sforzarmi ma, credetemi, non ci riesco, ci provo, ma no, non si può spiegare, è un gomitolo di pensieri, un boccone di ansie da ingoiare perché hai davanti pazienti, hai davanti corpi esanimi, adagiati su letti sempre troppo piccoli, ci sono telefoni che squillano e telefoni che squillano continuamente, cartoni pieni di farmaci, flebo, decine di allarmi di ventilatori che lampeggiano, maschere che sfiatano, cartelle cliniche, ci sono parenti, ci sono… c’è tanto di più.
Colleghi giovani, giovanissimi, colleghi anziani, anzianissimi, non c’è differenza, la malattia è impietosa, non si ferma!
Ma siamo sempre lì.
Tutti insieme, sempre.
Capita di sentirsi chiedere durante una telefonata (in cui ancora non è morto nessuno semmai è peggiorato) se la salma si potrà vedere, trasportare, tumulare in una cappella gentilizia, e cosa si risponde?
Non era previsto da nessun manuale di Medicina cosa rispondere!
E poi capita anche di sentirsi chiedere, nella telefonata subito successiva, se il posto si sia liberato per portare un altro paziente, e poi capita anche di dover litigare con chi al di là del vivavoce non sempre comprende cosa ci sia oltre quel telefono.
Se lo si capisse lontanamente si sarebbe molto ma molto più pacati, solidali, tolleranti.
Si uscirebbe il meno possibile, ci si accontenterebbe del minimo.
Tutti.
Ma se non si prova, non si crede, come nelle migliori tradizioni. Fare il rianimatore implica molti sacrifici ma questo va oltre. Molto oltre.
Forse pochi sono pienamente consapevoli della scelta di fare il rianimatore ma sicuramente nessuno può ritenersi pronto ad affrontare l’uragano che stiamo affrontando.
Quando si apre quella porta del filtro per passare oltre, che spesso risucchia per la pressione negativa e non vuole aprirsi, sarebbe istintivo scappare e invece devi essere più forte, spingere con determinazione e spalancarla per passare oltre, nell’inferno. Così come devi essere forte per scegliere di uscire, resta da vedere ancora un attimo, devi controllare quel parametro, la febbre sale, non urina! Occhi imploranti ti chiedono come vanno quei numeri luminosi sul monitor.
Non so dove si trovino le parole per spiegare questo.
Non ci sono cure definitive, non farmaci, non elisir, solo terapie di supporto.
Non ci sono posti per tutti in terapia intensiva, non ci sono abbastanza medici e infermieri e quelli che ci sono si fanno in quattro, in otto anche in sedici, con una volontà senza pari, credetemi davvero.
C’è una malattia imprevedibile, che non fa sconti, un essere infinitamente piccolo, che non teme di attraversare ogni feritoia, ci siamo noi, io e miei colleghi, che sento di ringraziare dal profondo del cuore perché non hanno mai perso la concentrazione anche se quando stai per annegare sarebbe scontato perderla, sarebbe umano, ma è così che si deve lavorare: dobbiamo abituarci!
Abituarsi a lavorare come se si stesse annegando, facendo finta che non sia vero e continuando imperterriti, parlando di liquidi, di frequenza cardiaca, di saturazione, di glicemia, di terapie mentre stai soffocando sotto chili di Tnt.
Uscire sul lungomare potrebbe essere niente, una passeggiata sul lungomare, una boccata d’aria che per me vuol dire potenzialmente altre centinaia di contagi!!!
Decine di altri turni. Ore e ore con lo scafandro. Notti insonni e giorni cestinati.
Abbiate pietà di noi.
Dafne Pisani
Cara Collega,
credo tu abbia perfettamente ragione. Ci vogliono cuore e forza per spalancare la porta dell’inferno.
Con profonda stima e gratitudine.
Alberto Oliveti
Presidente Fondazione Enpam