Cass. pen., sez. IV, 27/03/2001, n.731


Se si deve tener conto della finalità terapeutica della condotta del medico (che non vuole causare una malattia dei corpo o della mente, ma vincerla) sicchè la liceità di tale attività non può trovare giustificanza solo nel consenso (entro ovvero oltre la categoria di cui all'art. 50 c.p., ma in coerenza con il principio da esso enunciato), resta indubbio che l'agire del chirurgo sulla persona del paziente contro la volontà di costui, salvo l'imminente pericolo di morte o di danno sicuramente irreparabile ad esso vicino, non altrimenti superabile, esita in una condotta illecita capace di configurare più fattispecie di reato, quali violenza privata (art. 610 c.p., la violenza essendo insita nella violazione della contraria volontà), lesione personale dolosa (art. 582 c.p.) e, nel caso di morte, omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.). Viene in evidenza in questi casi non già la portata e l'estensione del consenso alla manomissione del proprio corpo in presenza di finalità terapeutica di per sè scriminante (tipicizzata o meno), quanto la violazione del divieto di manomissione del corpo dell'uomo e, quindi, la violazione consapevole del diritto della persona a preservare la sua integrità fisica nell'attualità - come ora è - a nulla valendo in simile situazione il rilievo che questa possa essere, eventualmente, migliorata, e il rispetto della sua determinazione a riguardo del suo essere. Ne segue la regola secondo la quale il medico chirurgo non può manomettere l'integrità fisica del paziente, salvo pericolo di vita o di altro danno irreparabile altrimenti non ovviabile, quando questi abbia espresso dissenso.

 

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