“Persi mio padre, mi adottò l’Onaosi”

Enrico Olivieri racconta i suoi 16 anni di collegio: “Difficile immaginare la mia vita senza l’Opera”

Enrico non era ancora l’avvocato Olivieri quando decise di difendere il suo primo cliente.

La sua prima sfida professionale, pro bono e senza nemmeno ricevere l’incarico, fu trasformare un capitolo della propria tesi di laurea in Diritto amministrativo in un’arringa difensiva a favore dell’Onaosi. Una questione di cuore a tutela dell’Opera che allora rischiava perfino di essere impacchetta e finire nel ripostiglio degli enti inutili, per poi essere smantellata.

Era l’86 e il giovane laureando salutava, non senza una punta di amarezza, l’ente che lo aveva ospitato per sedici anni nei collegi di Perugia, dalla terza Elementare all’Università.

Quella di Enrico è una storia che finisce e comincia con qualche lacrima. “I primi mesi in convitto – racconta il protagonista – ricordo che piangevo e non mangiavo. Mi ritrovai in collegio a soli 7 anni, da orfano di padre, e fu un vero trauma. A distanza di tempo, quando la situazione andò normalizzandosi, l’Onaosi diventò sinonimo di casa. Fino al punto che ero il primo a tornare in convitto dalle vacanze estive, anche per scegliere la sistemazione migliore negli alloggi”.

Quell’ente con sede a Perugia si era trasformato in un pezzo di famiglia, al riparo del quale Enrico racconta di esser cresciuto. “L’Onaosi suppliva alla mancanza di un genitore. Mio papà, d’altra parte è come se non l’avessi mai conosciuto”, ricorda addentrandosi in una storia di altri tempi.

“Mio padre morì quando avevo solo dodici mesi. Aveva vent’anni in più di mia madre, che quando ne aveva 42 si trovò sola con me e con una pensione di reversibilità, che doveva bastare per tutto”.

Il racconto delle vicende paterne sembra quello di un romanzo. Originario abruzzese, ex ufficiale medico dell’Armata italiana in Russia (Armir), medaglia di bronzo al valor militare, il padre di Enrico fu anche Podestà di Lucca ai tempi della Repubblica di Salò.

Davvero una vicenda di altri tempi, che porta il dottor Olivieri per due volte davanti al plotone d’esecuzione. “Lo salvarono l’onestà nella condotta e la bontà d’animo, come mi ha sempre raccontato mia madre”, dice Enrico.

Scampato alla morte, ma col peso di un passato scomodo, tra mille difficoltà riesce infine a trovare un impiego come medico Inps. “Dopo la sua morte – continua – venimmo a sapere dell’Onaosi e, fatta una visita ‘esplorativa’ ai collegi con mia madre, diventai convittore”.

E allora da Roma a Perugia, in quell’istituto fatto di regole, divisa impeccabile e orari, divenuto poi “il porto al cui riparo sono cresciuto assieme ai miei nuovi amici. La mia Perugia – ricorda Enrico – era la città del cinema o dello stadio la domenica, per vedere il ‘Perugia dei miracoli’.

A pagarci il biglietto era sempre il convitto. Per me – commenta – il collegio era diventata la normalità. Non so come sarebbe stata la mia vita senza l’Onaosi. Appartiene talmente alla mia storia che non riuscirei ad immaginarla senza”.

Per il giovane Enrico il collegio diventa il nucleo di tutte le attività. Dallo studio alle amicizie, dall’educazione al gioco. “Ero molto appassionato di basket e calcio. A pallone – continua a raccontarsi – giocavo come stopper e libero.

Vestivamo la maglia di lana blu con la fascia bianca, i colori della Caduceo, che poi cambiammo con le divise arancio e nero ispirate alla leggendaria Olanda del ’74 di Cruijff.

Allenandoci anche due volte al giorno arrivammo a battere il Penna-Ricci, la più prestigiosa tra le rivali di Perugia, dove mosse i primi passi anche Giancarlo Antonioni”.

Adesso Enrico è un avvocato d’azienda, sposato con due figli, “coi quali sono andato a visitare i collegi Onaosi, per mostrare loro una parte della mia storia”.

Antioco Fois

 

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