L’Istat ‘grazia’ le pensioni di vecchiaia Inps

Sarà al sicuro per ulteriori due anni il limite d’età di 67 anni stabilito per poter ottenere la pensione di vecchiaia dall’Inps. L’impulso per riconfermare la soglia fino al 2023 è stata la valutazione Istat sulla speranza di vita, che resta pressoché invariata.

A sancirlo è stato poi il decreto del ministero dell’Economia dello scorso 5 novembre che ‘blocca’ fino a dicembre 2022 le soglie previste dalla riforma Fornero, altrimenti interessate da un ritocco biennale.

La riforma che porta il nome dell’ex ministro, oltre a posticipare dal 2011 di 5-7 anni l’uscita dal lavoro, prevede infatti il sistema della ‘aspettativa di vita’, che mette in correlazione l’età pensionabile alle speranze di vita certificate dall’istituto di statistica.

ETÀ E ASSEGNO INVARIATI

“Dal 1° gennaio 2021 i requisiti di accesso ai trattamenti pensionistici non sono ulteriormente incrementati”, si legge infatti sulla Gazzetta Ufficiale. La variazione della speranza di vita all’età di 65 anni relativa alla media della popolazione residente in Italia, viene in seguito spiegato nella pubblicazione, corrisponde alla differenza tra la media dei valori registrati negli anni 2017 e 2018 e il valore registrato nel 2016. Un dato che, in buona sostanza, rivela una variazione prossima allo zero.

La soglia d’età già prevista, salvo impreviste modifiche nella manovra economica, rimarrà quindi uguale anche nel 2022, mentre il prossimo incremento della soglia di anzianità potrebbe presentarsi a partire dal 2023, ma in ogni caso senza superare i 3 mesi a biennio (quindi fino a 67 anni e 3 mesi). 

L’ultimo ‘scatto’ risale a quest’anno e aveva segnato un balzo di ben cinque mesi, che ha portato l’età di vecchiaia dai 66 anni e sette mesi ai 67 anni

Non cambiano neanche i requisiti richiesti dalla Fornero per la pensione ‘anticipata’, che restano fermi a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.

La vita lavorativa non si allunga, dunque. Ma fortunatamente nemmeno la pensione subisce riduzioni, dato che il coefficiente che trasforma lo stipendio in pensione rimane invariato.

SEI STRADE PER USCIRE DAL LAVORO

Nel 2020 restano sei le strade per lasciare il lavoro.

Oltre alla pensione di vecchiaia e anticipata, si conferma Quota 100 con 62 anni d’età e 38 di contributi; l’Opzione donna con 58 anni o 59 se lavoratrici autonome e 35 di contributi, con ricalcolo contributivo e finestra di un anno; l’Ape sociale con 63 anni e 30 di contributi per disoccupati, invalidi, caregiver e 63 anni e 36 di contributi per i lavori gravosi. Per i lavoratori precoci la soglia è di 41 anni di contributi (di cui uno prima dei 19 anni) a prescindere dall’età.

Nei primi nove mesi del 2019, sulla base dell’ultimo monitoraggio dell’Inps, le pensioni di vecchiaia liquidate sono state 63.926 a fronte delle 141.861 dell’intero 2018.

In particolare sono state penalizzate le donne che a causa della parificazione dell’età con gli uomini nel 2018 (a 66 anni e sette mesi) e con il successivo incremento di cinque mesi del 2019 hanno dovuto rimandare il pensionamento di molti anni.

Caso emblematico è quello delle nate nel 1953 che in assenza del requisito contributivo per la pensione anticipata (41 anni e 10 mesi o, in alternativa, Quota 100) hanno dovuto rimandare l’uscita fino al 2020, mentre le loro colleghe più anziane di appena due anni sono uscite nel 2012, con 60 anni di età più un anno di finestra mobile.

I lavoratori che hanno la pensione interamente calcolata con il contributivo, cioè quelli che hanno cominciato a versare dal 1996, possono chiedere la pensione anticipata a 64 anni di età – un requisito che resta stabile nel 2021 – purché abbiano almeno 20 anni di contributi effettivi e un ammontare della prima rata di pensione non inferiore a 2,8 volte l’importo mensile dell’assegno sociale: 1.282 euro nel 2019.

Per chi ha versato contributi dal 1996 e se la pensione calcolata non è almeno pari a 1,5 volte l’assegno sociale (circa 687 euro per il 2019) l’uscita per il pensionamento di vecchiaia slitta a 71 anni.

Per i lavoratori impegnati in attività gravose il requisito per la pensione di vecchiaia resta nel 2021 a 66 anni e sette mesi.

Bisogna infine ricordare che al termine del 2021 scadrà anche l’attuale schema di indicizzazione delle pensioni all’inflazione, finalizzato alla cosiddetta perequazione dei trattamenti.

Le attuali 7 fasce saranno solo in piccolissima parte ritoccate dalla legge di Bilancio 2020, dove si prevede di portare dal 97 al 100 per cento la copertura dell’indicizzazione ai prezzi per gli assegni fino a quattro volte il minimo (2.052 euro quest’anno).

Se nulla cambierà, dal 2022 si dovrebbe poi tornare alle tre fasce previste dalla legge 388/2000, che prevede una perequazione al 100 per cento degli assegni fino a tre volte il minimo, del 90 per cento per le pensioni tra tre e cinque volte il minimo e del 75 per cento per gli assegni oltre cinque volte il minimo.

Claudio Testuzza