La qualità, per restare lì nel mezzo

presQuando posso andarmene? È la domanda che ultimamente mi sento ripetere più spesso ed è quella che più mi fa male. Ovviamente non sto parlando del pieno diritto al riposo dopo una vita di lavoro, ma della disaffezione che spinge tanti colleghi a mollare quello che ho sempre pensato essere il mestiere più bello del mondo.

Da studente le cose che sogni sono il camice, il fonendo e la valigetta. E pensi che una volta avute non le abbandonerai mai, perché la nostra professione è per tutta la vita: si è medici, non si fa il medico. Come in quella canzone: “lì, sempre lì, lì nel mezzo, fin che ce n’hai stai lì”. Ma qualcosa è cambiato.

La mia percezione è che l’università prepari su uno spettro sempre più ampio di conoscenze ma non formi abbastanza sui principi di fondo, incidendo quindi sulla motivazione. Poi c’è la professione, le cui modalità di esercizio spesso ne uccidono il senso e lo spirito (tanti dicono: “Sarebbe così bella, se non fosse per…). Ad incidere è anche la nostra società, accelerata e superficiale. Infine le regole, che ci fanno spesso passare dal camice al cilicio.

Di fronte a questo scollamento tra la vocazione e l’esercizio reale, bisogna ritrovare il senso di una professione nobile e fare uno scatto di legittimazione. La risposta, secondo me, sta nella qualità. Classicamente è stata definita come conformità a criteri, indicatori e standard, cioè una rispondenza a requisiti prestabiliti. Oggi la qualità della professione va ridefinita ai tempi e alle evoluzioni del cambiamento. E una volta ridefinita va misurata, certificata, comunicata (perché tu puoi anche essere certificatissimo in qualità ma se non lo sa nessuno non vale niente). E anche comunicarlo non basta, la qualità deve essere percepita.

Lo dico anche per il suo effetto previdenziale: la qualità nel lavoro è una garanzia per mantenere il flusso contributivo per pagare le pensioni. Oggi nel mondo delle professioni si affacciano società che vi investono capitali unicamente per trarne profitti. Allo stesso tempo è sempre più forte la spinta all’uso di dispositivi (a partire dalle app preinstallate sugli smartphone più diffusi) che mirano a rimpiazzare il lavoro medico. Ma la concorrenza basata sui mezzi nulla può se il rapporto medico-paziente tiene. Un rapporto che è appunto basato sulla qualità percepita: se il paziente ha fiducia nella mia qualità continuerà a scegliere me. Ed è per questo che il mio futuro previdenziale non dipende solo dalla quantità di contributi che verso ma anche da come si svolge il mio presente lavorativo.

Cruciale è dunque la riflessione sui concetti di scienza e coscienza, di autonomia responsabile, di empatia e di abnegazione. Su questa sfida della qualità credo che anche l’Ordine, organo ausiliario dello Stato a garanzia dell’esercizio della professione e della salute del cittadino, debba oggi più che mai impegnarsi. Come ha fatto con la sua terza conferenza nazionale della professione medica e odontoiatrica che si è svolta a maggio a Rimini. Il titolo esortava: “Guardiamo al futuro”. Per trovare quella qualità e quella motivazione che ci permetteranno di restare lì nel mezzo.

Alberto Oliveti*

*Presidente della Fondazione Enpam

@FondazioneEnpam