Guardia medica trappola quasi mortale

Un’ora e mezza nelle mani dell’orco. Parla la dottoressa che nella notte tra il 18 e il 19 settembre è stata violentata durante il turno di continuità assistenziale a Trecastagni.

Sai come sono andate le cose? Te lo racconto io”. A parlare è la dottoressa rimasta vittima di violenza nel posto di Continuità assistenziale di Trecastagni, in provincia di Catania.
“Quando ha suonato e l’ho visto dietro la grata del portone d’ingresso dell’ambulatorio, gli ho aperto tranquillamente.
Era un paziente abituale. Abitava vicino alla guardia medica. Veniva spesso per chiedere prestazioni di vario tipo. Veniva anche la madre. Non mi è balenata per niente l’idea che potesse fare quello che poi ha fatto quella notte.
Era lucido, malgrado si sia poi detto che fosse ubriaco. Non lo era affatto, forse avrà bevuto qualcosina per darsi coraggio, ma certo non posso definirlo in alcun modo una persona in quel momento intossicata dall’alcool, né confuso. Anzi si è presentato tutto ben sistemato. È entrato, e così freddamente composto mi ha chiesto un’iniezione, perché aveva mal di denti. Siamo entrati nell’ambulatorio.
Appena gli ho voltato le spalle per cercare il farmaco nell’armadietto dei medicinali, lui mi ha aggredito immediatamente, come si fa quando vuoi cogliere di sorpresa una vittima”. Rosa (un nome di fantasia) è a terra, si trascina: vuole arrivare al pulsante del sistema di sicurezza per lanciare l’allarme, ma l’aggressore la precede, sa che quello è l’unico modo per lei per chiedere aiuto, lo disintegra.
“È la prima cosa che ha fatto – prosegue nel racconto – ma a ripensarci, anche se non lo avesse distrutto, non so quanto sarebbe stato fattibile per me premere quel bottone. Da lì per un’ora e mezza mi ha tenuta intrappolata e sequestrata dentro i locali della guardia medica. Non potevo in alcun modo fuggire, né muovermi. Poi a un certo punto sono riuscita a divincolarmi con un espediente.
Mi ha chiesto una sigaretta e allora ho ricordato di avere dei cerini nell’armadietto. Con questa scusa, per un attimo, mi ha mollato con tutte e due quelle braccia e quelle mani terribili da orco”. Rosa riesce a scappare, è fuori finalmente, e grida aiuto.
“Sostanzialmente io sono riuscita a uscire dalla trappola solo perché qualcuno era insonne e sentendomi ha chiamato i carabinieri”.

PAURA DI MORIRE “Per me la guardia medica è stata una trappola quasi mortale”. La dottoressa ha la consapevolezza di aver vissuto un momento estremo, un evento che avrebbe potuto essere definitivo.
“La forza che mi fa andare avanti mi viene dall’aver vissuto in quell’ora e mezza, che per me è stata un’eternità, il terrore puro, la paura di morire. Simile a quella che vive chi resta intrappolato nelle macerie di un terremoto o chi sopravvive a una sparatoria.

Riabbracciare le persone care, mio marito, le mie figlie – dice ancora la dottoressa – è stato bellissimo. Una carica di energia fortissima. In quel momento ho sentito di essere viva e di poter ricominciare una vita accanto a loro”.

FIEREZZA “Nella mia vita c’è stato il prima e il dopo. Umanamente sono sconvolta – prosegue nel racconto –.
Ho paura dei posti bui e isolati, cosa che prima non avevo, ho ancora i brividi se vedo persone con la stessa struttura fisica del mio aggressore. Ma grazie a Dio ci sono punti saldi che non sono stati spazzati via”.
Condividere con le figlie quest’esperienza drammatica è per Rosa meno difficile di quello che paventava. Lei è salva – le spiegano gli psicologi – e per i figli questo conta. Come conta la sua determinazione, la sua forza di combattere contro la violenza e contro l’ingiustizia che tutto questo sia accaduto sul posto di lavoro.
Mai le è balenata l’idea di dover falsare i fatti in nome di una vergogna che, afferma “non ci deve essere. Una vergogna che io non ho provato e che la vittima in questi casi non deve avere. Oltre al mio temperamento – dice poi – mi ha aiutato molto il fatto di essere un medico e ginecologo. Mi ha aiutato a reagire e in un certo modo, per quello che è stato possibile, a difendermi dall’aggressione”.
A CASA Dopo la violenza, la dottoressa ha voluto richiamare subito la solidarietà dei colleghi, ma – spiega – senza cadere in atteggiamenti di vittimismo. “In questi casi come in altri, spesso chi subisce fa la vittima due volte.
Bisogna porsi in modo costruttivo altrimenti non si ottiene nulla”. Il suo primo istinto, racconta, è stato quello di contattare il presidente dell’Ordine dei medici. “Mi sono detta, quella è la mia casa, quella è la mia famiglia, non possono rimanere al di fuori. Devo chiedere aiuto a loro”.
PRIMA E DOPO Con il passare dei giorni, riaffiora lentamente la quotidianità e si ricompone il puzzle dei propositi e dei progetti. “Quello che non ho più fatto è lavorare serenamente: in guardia medica non ci potrò mai più tornare.
Sto preparando la domanda di ricollocazione e spero che me la diano, perché io la serenità l’ho persa. Il prima era una vita in un certo modo in cui lottavo per queste problematiche, ora le cose devono cambiare. Il dopo deve essere migliore di prima per me e per i miei colleghi”.
di Laura Montorselli