A bordo di un pronto soccorso sulle rotte migratorie

Negli ospedali da campo con chiglia e timone non si timbra il cartellino. I pazienti arrivano a ondate, centinaia alla volta affollano il ponte per passare al triage di quel pronto soccorso galleggiante.

Alle urgenze va la precedenza di ricovero nel ‘container codici rossi’, i sospetti infettivi vanno nella saletta di isolamento, per chi è in pericolo di vita è possibile attivare l’elisoccorso.

Lo spazio per la diagnosi è minimo e il lavoro di valutazione è continuo per casi di disidratazione, ipotermia e fratture scomposte da percosse o armi da fuoco.

Poi ci sono le ustioni causate dalla miscela caustica di carburante e acqua salata, le infezioni, la scabbia e le patologie croniche.

Una sequenza che non lascia respiro al solo medico di bordo, affiancato da due infermieri e un’ostetrica.

“Bisogna agire in fretta e con precisione, per stabilire chi ha la priorità e non sottovalutare situazioni cliniche potenzialmente evolutive. I casi più gravi erano comunque il 2-3 per cento del totale”, spiega Stefano Geniere Nigra.

Il 32enne torinese, specializzato in medicina di emergenza-urgenza, è stato da marzo a maggio dell’anno scorso a bordo della Vos Prudence, sulla rotta dei migranti per Medici senza frontiere. Imbarcazione che affiancava la più nota Aquarius e non più operativa (così come la nave Bourbon Argos) dopo il decreto Minniti.

“Un giorno abbiamo fatto salire a bordo 27 persone. Erano salpati in 130”, racconta Umberto Colella, napoletano, medico anestesista-rianimatore di 33 anni, in servizio sulla Bourbon Argos per tre settimane nel novembre 2016.

A completare la ‘sindrome del migrante’ si sommano le ferite fisiche e interiori di stupri e torture, subite in un viaggio che dura mesi o talvolta anni.

Resoconti disumani e dettagliati ricostruiti dal medico, assieme a mediatori culturali e psicologi.

Come la storia di una famiglia pakistana di medici, stabilita in Libia per sfuggire alle angherie della criminalità e poi incarcerata, torturata e stuprata a scopo di estorsione.

O di un ventenne con le mani ‘ad artiglio’, rese inservibili dopo essere stato costretto dai suoi aguzzini ad afferrare barre di metallo rovente.

“A bordo non mi sono mai sentito in pericolo e non ho mai riscontrato patologie infettive gravi a tal punto da richiedere un’evacuazione o trattamento immediato.

Le più frequenti sono state morbillo, varicella o malattie sessualmente trasmissibili”, spiega Alessandro Jachetti, milanese di 31 anni

Anche lui specializzato in emergenza-urgenza, è stato per 45 giorni camice bianco della Prudence, in mare tra maggio e giugno 2017.

“Ci vuole una preparazione adeguata – racconta il giovane professionista – per confrontarsi con una sfida difficile, in ambienti e situazioni ostili, con poco tempo e risorse a disposizione. Bisogna essere multitasking, capaci di gestire in autonomia da un arresto cardiaco a un’ustione. Servono coraggio, lucidità e molta motivazione.

La contropartita è un’esperienza umana incredibile”.

I tre medici intervistati, prima di prestare servizio, hanno frequentato il corso Crimedim Humanitarian medic dell’Università del Piemonte Orientale di Novara. Due di loro sono partiti per Medici senza frontiere quando ancora frequentavano le rispettive scuole di specializzazione.

 

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